RSU

Sempre a proposito di RSU, venerdì mi ha scritto Mauro Andreolli (mente della band trentina), segnalandomi questa paradossale “recensione definitiva” apparsa giovedì scorso (a 14 anni dall’uscita del disco!) nel sito Storia della Musica:

R.S.U.
Rifiuti Solidi Urbani

di Marco Biasio

Era il 1994, e i Rifiuti Solidi Urbani avevano già capito tutto.

Passo indietro.

1981, Berlino. Il mercato discografico tedesco viene sconvolto dall’esordio (“Kollaps”) di un gruppo emergente, tali Einstürzende Neubauten, che solo alcuni anni più tardi verranno riconosciuti come fondatori e padrini della rivoluzione industrial: più che un nuovo genere musicale, un nuovo modo di intendere e suonare la musica, ma anche un movimento intellettuale che genererà moltissimi affluenti negli ambiti culturali più disparati, dal cinema alla letteratura (ricordiamo, ad esempio, il cyberpunk, parossismo ideologico del rapporto uomo/macchina). Il suono del Nuovo Millennio, della manodopera che lascia il posto alle macchine, del ferro che non diventa più solo un materiale da lavoro, ma anche un vero e proprio ausilio diretto nella catena di produzione. I ragazzi ci suoneranno di tutto, dentro “Kollaps”: tubi, seghe, qualsiasi oggetto non convenzionale che possa dare una voce alla Berlino dei casermoni e della siderurgia.

Un passo avanti.

1987, Birmingham. È passato appena un anno dal trittico insuperabile “Master Of Puppets” – “Reign In Blood” – “Peace Sells… But Who’s Buying?”, tre pietre miliari della musica tutta che hanno dato ai rispettivi autori, Metallica, Slayer e Megadeth, la palma di precursori del thrash metal, un’estremizzazione sonora senza precedenti che, seppur riletta dai tre gruppi in questione con stili completamente differenti fra di loro, viene vista dai critici come l’incontro formale dell’hardcore punk californiano con la N.W.O.B.H.M. inglese. Ed è qui che esordisce ufficialmente un complesso che, nel corso degli anni, dirà la propria in moltissime frazioni decisive della musica. Stiamo parlando dei Napalm Death che, con l’irripetibile “Scum”, plasmeranno un suono ancora più brutale ed efferato, basato tutto sull’impatto fisico, sulla velocità, sull’incisività e sulla possenza ritmica. Chiamato dagli stessi inglesi come “grindcore” –neologismo derivato direttamente dal verbo “to grind”, ovvero macinare, polverizzare-, il genere passerà ben presto alla storia, influenzando pesantemente i decenni di musica successiva, e consegnerà i Napalm Death alla leggenda.

E torniamo dunque da dove eravamo partiti.

1994, Trento. Dalle ceneri degli Aura Nera, band del sottobosco musicale altoatesino, la mente del bassista Mauro Andreolli concepisce il nuovo progetto R.S.U., Rifiuti Solidi Urbani, terzetto ruvido ed abrasivo come la nomenclatura che si porta dietro. Dalla new wave degli esordi, il suono si fa più duro, caustico, ipercinetico, deflagrante. Le spire depressive degli anni ’80, i campionatori ben in evidenza, la tetra desolazione di un non-futuro e di una possibilità, preclusa, legata ad una crescita sociale ed interiore, lasciano spazio ad una fusione sonora devastante come poche, che racimola le scorie industrial teutoniche –già testate, qualche anno prima, nella formula dei CCCP, storico gruppo del Giovanni Lindo Ferretti pre-illuminazione di Damasco… e a buon intenditor…- e le mescola assieme a pulsioni grind alienanti e disumane. Non solo, perché il disegno di Andreolli prevede anche l’inserimento di quella dance music, opportunamente filtrata, distorta e sodomizzata, che fece, nel decennio trascorso, la fortuna di tante avvenenti lolite. Una miscellanea da togliere il fiato, per potenza e pressione, ma soprattutto per imponenza storica e critica.

Il tema che lega le quindici tracce di “Rifiuti Solidi Urbani”, il loro esordio sotto Psycho-BMG Ariola del 1994, è l’amore. Non, però, quello cotonato e vaporoso decantato sui dancefloor, non quello che costruì le pareti di illusioni profumate dell’assolato agosto di Woodstock, e nemmeno quello più struggente e sofferto della scuola cantautorale italiana. L’amore, in questo caso, è visto come valore perduto, soffocato dalla squallida bigiotteria sentimentale e voyeuristica della società capitalista, trasformato e mercanteggiato fino a farlo divenire bassa lega di baratto per ottenere piacere, privato della sua accezione originale e brutalizzato agli estremi, piccolo passatempo usa e getta senza fine alcuno che quello di sollazzare e svuotare i già vacui animi delle masse, ipnotizzate dai dettami imperialistici dei vertici del potere. La sagoma, nella copertina verde smeraldo, dell’uomo-cyborg Tetsuo, che assiste sconvolto alla trasformazione delle proprie carni e, metaforicamente, allo smarrimento di coscienza della stessa vita, è il simbolo che ci accompagnerà lungo tutti questi trentotto minuti.

La perla del disco, “0”, terremoto prog-industrial dall’organetto siderurgico in apertura, e una sezione ritmica magmatica e ruzzolante, parla da sola, senza bisogno di troppi commenti. I numerosi gemiti femminili, estrapolati da pellicole pornografiche e campionati lungo tutto il pezzo, sono l’alzabandiera della perdita di valori, dello squilibrio di ruoli nel quale l’uomo è perno rotante, della falsità che traspare dalle emozioni e della loro inevitabile corruzione. E quando, fra sibili elettrolitici e scariche di doppio pedale, il cantante Ugo Pozzi declama arido, con tono sconfitto, il “piacere dell’avvitamento”, sembra quasi che un pezzo di civiltà si sia depennato all’istante.

Tutto il lavoro, però, si snoda sinuoso, andando ad abbracciare gemme di vario valore e grandezza, originali nella soluzione ed imprevedibili nello svolgimento (come, ad esempio, “Riflesso”, thrash-core ferruginoso à la Bulldozer che all’improvviso si avvita su sé stesso in una dislessia futur-disco). Eccezionale, per ricollegarci ulteriormente al quadro sopra delineato, l’incubo di beat e matasse catarifrangenti di “Fellatio Meccanica”, o l’epopea funebre delle agghiaccianti coltellate sintetiche di “La Saga Della Reale Realtà”, ferino disincanto dissonante ed asettico. Da sottolineare attentamente anche “Velo…”, grind assassino con un basso scorticante, “Vita!”, stop and go thrash fra Ministry e Voïvod (riproposto, appena più avanti, in un’urticante versione ballabile), e la tanto bella quanto riuscita rilettura in chiave metallica di “Rock’N’Roll Robot”, cavallo di battaglia di Alberto Camerini e della disco-dance italiana anni ’80 che, come affermerà lo stesso Andreolli in un’intervista, fu “il tormento della nostra infanzia”.

L’amore deviato, dicevamo. Che torna a colpire con ferocia metodica, sotto più forme. Ad esempio, l’incestuosa passione fra uomo e macchina, artificio scientifico che si frappone in una normale relazione e ne soppianta uno o ambi i partner. “Rapporti Dance” e “Rapporti Techno”, due differenti variazioni su un tema praticamente congruente, creano una vera e propria bolla all’interno della tracklist. Dapprima una violenta scudisciata disco-core, dove l’immaginazione è stordita e tenuta a freno dalle marcescente del “fetore d’amore”, e poi un energico trattamento a base di bassi e loop, che ne sfilaccia definitivamente i barlumi caritatevoli e la rende un vero e proprio inferno chimico.

Analizzato e storpiato ogni legame affettivo fra esseri umani e loro inanimati sottoposti, non resta altro che esplorare il rapporto che intercorre fra l’uomo e il divino. “In Un Amen” è una strumentale che alza il tiro, campionando samples tratti direttamente dalle novene mattutine di Radio Maria ed affiancandoli ad uno sfiancante delirio industrial metal, veloce e possente, in una contrapposizione blasfema che, come da copione, ha il suo termine sacrilego in un innocente “amen” in chiusura.

Eppure non basta.

Perché i R.S.U. si tolgono le vesti di provocatori –qualora le avessero veramente mai indossate- e firmano l’epitaffio finale, in una gigantografia parietale destinata ad imprimersi a lungo nelle nostre menti. La “Discarica” (in tedesco, appunto, “Die Mülldeponie”), è il luogo dove l’uomo ha deciso di buttare i propri sentimenti, in funzione di altri più pratici ed assai meno ingombranti, fra voci filtrate, quasi extraterrestri, e una cacofonia che sola sembra appartenere alle lamiere. Li ritroviamo, quasi trenta minuti dopo, corrosi, impacchettati, sfigurati, trasformati in “Cenere” (o, altresì, “Der Verbrennungsofen”), che si sparge in un vento immobile. Quello che ne rimane, alla fin fine, è una pennellata di romanticismo decadentista, anacronistico, barocco, crepuscolare, che si identifica nella puntina del giradischi che va a leggere, in penombra, un elegante valzer di Strauss. Ma il dazio da pagare, per far scivolare indenni gli antichi pentagrammi, è quello di sopportare un minuto di insopportabile geenna, dove i ritmi palpitano, tumultuosi, ad un livello tale da avvicinarsi all’incoscienza metafisica della goa trance, e il basso irrompe in prima linea, possente, innaturalmente piegato e distorto, a violentare la sua stessa natura in un rimbombo asettico, anticipando quelli che saranno i pilastri basilari del cybergrind. Poi, il silenzio della pace tormentosa.

Passeranno due anni, e i R.S.U. torneranno sul mercato discografico con un secondo lavoro, “Esperienze Del Limite”, che conterrà un paio di inediti, decine di remix di alcuni brani del primo lavoro e la riproposizione di alcuni di essi, affiancata ad un live di “Benvenuti A Babilonia” registrato a Firenze nel 1996. Il disco non andrà bene, e per la band trentina, nonostante il forte progetto di un terzo disco totalmente fisico ed alieno da interferenze elettroniche, verrà il momento di separarsi e prendere strade differenti. Tutto ciò che resta dei R.S.U., ora, risiede nella memoria dei pochi eletti dell’epoca, e in un’angusta sezione del sito ufficiale di Mauro Andreolli, nel frattempo divenuto dj, remixer e mente dei Lovecoma.

Ma era il 1994, e i Rifiuti Solidi Urbani avevano veramente già capito tutto.